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Titel
Le Alpi di Clio. Scritti per i venti anni del Laboratorio di Storia delle Alpi (2000-2020)


Erschienen
Locarno 2020: Dadò
Anzahl Seiten
257 S.
von
Ruggero Crivelli

Quando, anni fa, discutendo con un amico bibliotecario e appassionato di montagna gli dissi che i miei corsi portavano sul mondo alpino, mi guardò un po’ sorpreso e mi rispose: «Ma cosa si può ancora raccontare sulle Alpi, oggi?». Ebbene, oggi ho sotto gli occhi il libro pubblicato dal Laboratorio di Storia delle Alpi e se l’amico leggesse l’italiano glielo regalerei volentieri. Le Alpi di Clio escono quarant’anni dopo i due grandi volumi di Histoire et Civilisation des Alpes e, senza volerlo, hanno il merito di mostrare che oggi esiste un potenziale per – forse un giorno – vedere di nuovo una sintesi della ricerca sul (e nel) mondo alpino.

Sedici autori (senza contare la prefazione e l’introduzione) passano in rivista altrettanti aspetti legati alla storia delle Alpi attraverso sei temi principali: Tempo e transizioni, Partenze e ritorni, Ineguaglianze e fratture, Economie e territori, Immagini e paesaggi, Uno spazio di progettualità. Il titolo della pubblicazione rimanda significativamente alla Musa della Storia, a dimostrazione che la riflessione sulle realtà sociali e geografiche, a qualsiasi scala esse siano, per essere feconda deve riallacciarsi alla storia, cioè all’evoluzione e alle eredità iscritte nei luoghi, trasmesse e recuperate nel tempo. Presente e passato sono legati tra di loro (come sottolineato dal riferimento a Marc Bloch nell’introduzione di Lorenzetti) perché costituiscono la complessità di tutte le realtà, capire l’uno per spiegare l’altro e viceversa è il ruolo di chi fa ricerca in scienze sociali o di chi agisce sul territorio.

L’importanza del Laboratorio di Storia delle Alpi si è costruita attraverso la notevole e seria produzione di lavoro: ricerca, convegni, pubblicazioni (non da ultimo la rivista «Storia delle Alpi») ne sono la testimonianza evidente. Tuttavia, la sua importanza non deriva unicamente da questo, ma – e soprattutto, avrei voglia di dire – dalla problematica generale che caratterizza l’insieme dei suoi approcci e che ritroviamo in questo libro. Già anni fa, Jean-François Bergier scriveva che, pur essendosi avvicinati, il mondo alpino e quello delle terre basse rimanevano distanti, sottolineando così il fatto che le Alpi esistono perché connesse al mondo esterno, ma presentano allo stesso tempo una loro particolarità. Una particolarità basata sul paradosso dell’apertura all’Altrove: attrazione versus diffidenza nei confronti di quanto viene dall’esterno, frutto sicuramente di un’autocoscienza della fragilità del proprio luogo, del proprio ambiente. Non solo dell’ambiente in senso fisico, ecologico, ma soprattutto sociale. Coscienza, insomma di quanto un’apertura senza diffidenza possa portare alla distruzione identitaria di una collettività e del suo ecosistema, ma pure coscienza di quanto una diffidenza senza apertura possa portare anch’essa ad una crisi identitaria e alla mancanza di mezzi per gestire il proprio territorio.

Ben rileva Lorenzetti, nella sua introduzione, il fatto che le Alpi siano apparse per molto tempo come «uno “spazio problema”, quasi un fardello per le esuberanti economie globalizzate metropolitane». Ora, però, davanti «all’accentuarsi dell’emergenza climatica e ambientale […] sono diventate il catalizzatore della presa di coscienza dei limiti di un modello economico, sociale e territoriale vieppiù vorace di risorse e generatore di nuove marginalità». «L’infausta divisione tra la purezza alpina e la produttività urbana» – per riprendere il titolo di un capitolo del testo di Manfred Perlik – continua, oggi, a riprodurre la marginalità e il paradosso alpino. La logica dell’efficienza produttiva porta a considerare le Alpi come uno spazio ricreativo, accentuando così il suo sfruttamento ambientale.

La montagna, tuttavia, non è solo bella da vedere, ma anche da ascoltare, come spiegato da Nelly Valsangiacomo. I suoni (silenzio compreso) sono mediatori della territorialità alpina, sono territorializzanti nel senso che servono a gestire il territorio attraverso la comunicazione. Le grida, i segnali, i canti creano coesione sociale in ambiti territoriali precisi. Tolti dal loro contesto reale, possono poi diventare mitici a loro volta: miti fondatori, per esempio, di una nazione che vede nella montagna l’essenza delle sue virtù.

Il paradosso tra Alpi ideali e Alpi reali (per riprendere i termini sottolineati dal testo di Laurent Tissot) ritrova indirettamente l’osservazione di Jean-François Bergier, mettendo tuttavia in risalto l’ibridazione che risulta dall’incontro tra questi due aspetti, in parte imposti e in parte assunti. Ciò, può anche essere costatato negli attuali fenomeni di patrimonializzazione, in particolare nell’architettura di montagna che, non raramente, in nome di un bello scomparso intralcia l’utile, producendo – come scritto da Antonio De Rossi e Laura Mascino – «Un paesaggio culturale che perde spessore diacronico per assumere i tratti di una sorta di retrotopia contemporanea […] e che determina una visione che nega – espellendola – la radice produttiva di questi territori».

Alpi impermeabili al mutamento e al progresso? Ancora un mito iniziato con il XVIII secolo e al quale hanno pure dato il loro piccolo contributo alcuni grandi storici contemporanei. Le Alpi di Clio sono interessanti proprio perché riescono a sfatare questo mito (vedi per esempio il testo di Aleksander Panjek) mettendo in rilievo quanto il mondo alpino, studiato seriamente, sia complesso proprio perché paradossale e obbliga a diffidare (come i montanari?) delle generalità.

È impossibile presentare tutti i testi, la cui qualità (e il piacere della loro lettura) sono innegabili. Mi soffermerei solo su alcuni che mi hanno particolarmente interessato, perché vicini ai miei campi di ricerca.

Uno sguardo sul lungo periodo, come quello che va da Annibale a oggi (Jon Mathieu), pone il problema serio della periodizzazione. Il problema è serio non solo per il mondo alpino, ma per tutto il mondo europeizzato e, all’interno di questo, per tutte quelle marginalità che esso ha generato e continua a generare. Antichità, modernità, contemporaneità, ecc. sono riferimenti temporali astratti che cambiano di senso quando vengono analizzati nelle realtà sociali e territoriali concrete. Jon Mathieu propone, per le Alpi, una sequenza temporale divisa in quattro periodi: preistoria-antichità-alto medioevo; alto e tardo medioevo-primi tempi moderni; tempi moderni (che spinge fino alla metà del XX secolo) e tempi contemporanei che andrebbero dalla metà del XX al presente. Certo si può discutere anche su queste cesure, ma appunto, si dovrebbe discutere di tutte le cesure temporali proprio perché non sono neutre, ma dipendono dal punto di vista delle culture che le generano, nascondendo (o negando) spesso l’esistenza di culture diverse. Misurare il tempo è un fatto culturale, quindi storico.

Misurare il tempo significa anche misurare lo spazio. Oggi siamo abituati ad usare misure astratte, come il chilogrammo o il chilometro, e tutte decimali. Stefania Bianchi descrive la complessità delle misure passate, basate soprattutto su realtà pratiche: misura del tempo legate al calendario religioso, misure di spazio legate alla durata del tempo di lavoro, misure di peso legate al valore della merce, ecc. Spazio, tempo e cose non erano equivalenti (lo sono veramente, oggi?), perché la realtà vissuta (rurale) è, per sua natura differenziata in quanto legata all’uso di risorse locali. Questi «particolarismi», che avevano caratterizzato l’Antico Regime, hanno finito per cedere «il passo ad una accelerata omologazione di montagna e pianura».

Il processo di omologazione tocca anche gli enti locali. Anne-Lise Head-König mette in risalto le marcate diversità e vicissitudini delle istituzioni patriziali nella loro confrontazione con i comuni politici e i Cantoni. Pomo della discordia, iniziata nel XIX secolo, è stato l’uso dei beni patriziali e la ripartizione del godimento di questi beni, come pure l’assoggettamento fiscale. Se non tutti i Comuni patriziali hanno resistito al processo di modernizzazione politica, «la situazione attuale sembra mostrare il raggiungimento di un modus vivendi che non mette in discussione la loro esistenza». La loro «ricchezza» sta nel patrimonio fondiario costituito principalmente da boschi, pascoli e terreni agricoli che, ai nostri giorni, davanti ai mutamenti ambientali e alla presa di coscienza ecologica, assumono un valore particolare.

Si potrebbe ancora andare avanti, con molte altre considerazioni, ma rimando il lettore al libro e a quei capitoli che possono stimolarlo nelle sue riflessioni. Le Alpi – come mostrato da Roberto Leggero – si sono oramai allontanate da quella visione unitaria costruita verso gli inizi degli anni Settanta. Ora sembrano rappresentare un mondo a parte, frammentato in diverse realtà. Paradosso dello specchio rotto (miroir brisé) di cui parlavano Paul e Germaine Veyret dell’Università alpina di Grenoble? Frammentazione e allo stesso tempo similitudini e comunità di esperienze socio-ambientali? Forse è questo che sta alla base dell’interesse per il mondo alpino e che accomuna molti dei suoi ri- cercatori. (Ruggero Crivelli)

Zitierweise:
Crivelli, Ruggero: Rezension zu: Le Alpi di Clio. Scritti per i venti anni del
Laboratorio di Storia delle Alpi (2000-2020), a cura di Lorenzetti, Luigi, Locarno 2020. Zuerst erschienen in: Archivio Storico Ticinese, 2021, Vol. 169 pagine 161-163.

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Zuerst veröffentlicht in

Archivio Storico Ticinese, 2021, Vol. 169 pagine 161-163.

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