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Non è dubbio che – come ricorda Marco Marcacci nella prefazione – all’intervento francese le terre ticinesi debbano la loro emancipazione dalla sudditanza dei Cantoni sovrani e la nascita di uno Stato repubblicano autonomo nel 1803. Un’autonomia formale che, tuttavia, non poteva eludere i condizionamenti sostanziali di Parigi. Eppure, nel contesto ticinese come altrove, élites e comunità locali riuscirono a interagire con il nuovo dominus in maniera diversificata, non meramente passiva, denotando capacità di mediazione tra interessi diversi e, per quanto attiene al ceto dirigente sudalpino, abilità nel mantenersi al potere lungo l’intero periodo francese e oltre, fosse pure al prezzo di rimodulare via via il proprio orientamento politico. Attraverso uno scavo approfondito nella documentazione (rilevante quella inedita d’archivio), l’autore assume un osservatorio privilegiato delle vicende dell’epoca circoscrivendo un campione di venti personalità politiche, di primo e di secondo piano, sufficientemente rappresentative degli otto antichi baliaggi e dei diversi orientamenti emersi dal 1798 in avanti. L’intento, che in tal modo si realizza, è gettare nuova luce su un periodo che, data l’ingombrante (e forse un po’ deprimente) influen za della Francia sulle vicende elvetiche, «è stato piuttosto trascurato dalla storiografia» (p. 27), superando al contempo troppo rigide dicotomie storiografiche tra filoelvetici e filocisalpini, o fra (proto) liberali e moderati. Tra i personaggi di spicco campeggiano il colonnello Giuseppe Rusconi, l’abate Vincenzo Dalberti, gli avvocati Giuseppe Franzoni e Andrea Caglioni; e, per il Sottoceneri, Giovanni Battista Maggi e Giovanni Battista Quadri. Il volume consta di un’introduzione, nove capitoli (non numerati), conclusioni, corposi allegati (carte storiche, biografie dei venti personaggi politici), 38 tavole fuori testo (paesaggi, ritratti, documenti manoscritti). Nel primo capitolo l’adesione degli esponenti politici suddetti al mutamento rivoluzionario – ora convinta e attiva, ora più cauta e attendista – si spiega in generale con il clima di asfittico conservatorismo del tardo Settecento svizzero, che precludeva al notabilato locale in questione la possibilità di assurgere a ruoli istituzionali di rilievo; ed anche con la distinta formazione ideologico culturale internazionale di molti protagonisti ticinesi del nuovo regime, maturata tra le città della Lombardia Austriaca (Milano, Como, Pavia), la Francia, l’Impero. Oltre all’elemento linguisticoculturale, un fattore generazionale e uno geo-economico pure emergono qua e là, specialmente nel definire meglio le minoritarie tendenze filocisalpine di un Quadri, di un Maggi, di Giovanni Reali o di Agostino Dazzoni, animatori del fallito assalto a Lugano (15 febbraio ’98). Ed è proprio questa corrente politica a pagare il tributo più alto nei tumultuosi anni che scandiscono l’Elvetica fino al 1803, inframmezzati dalla guerra della II coalizione e dalle occupazioni austro-russa e francese che afflissero anche i due nuovi cantoni di Bellinzona e di Lugano (vicende efficacemente ripercorse nei capitoli secondo, terzo, quarto). I filocisalpini sono esclusi dalla vita politica (è quasi un’eccezione Dazzoni, segretario del viceprefetto distrettuale di Leventina), costretti all’esilio in Italia anche a seguito dell’insorgenza controrivoluzionaria che a Lugano nell’aprile 1799 costa la vita ad alcuni esponenti di tale fazione “patriottica” (nessuno di spicco), incluso l’abate Vanelli, redattore della «Gazzetta di Lugano». Sono i moderati filoelvetici ad assumere cariche importanti sotto l’Elvetica, sia personalità provenienti dal vecchio regime (i prefetti Rusconi e Franzoni) sia nuove figure come Giacomo Buonvicini, Antonio Maria Luvini, Annibale Pellegrini, Vittore Ghiringhelli. Lo stesso Dalberti, il cui profilo di statista già s’intravede, pur essendo escluso come ecclesiastico dalle cariche pubbliche per disposto costituzionale, si mantiene fedele ai principi del repubblicanesimo alla francese e coopera in vario modo alla vita istituzionale in Val Blenio, partecipando poi (1801) alla dieta unificata dei notabili ticinesi in cui si discute per la prima volta il progetto di un unico cantone a sud delle Alpi, su im pulso del Primo Console. Certo, le urgenze del momento e l’applicazione delle politiche decise dal regime unitario e centralista dell’Elvetica creano fratture e richiedono un continuo esercizio di mediazione: abolizione di decime ecclesiastiche e residui feudali, soppressione degli ordini religiosi regolari e avocazione delle relative proprietà, esclusione del clero dalle cariche civili, forme di coscrizione militare obbligatoria, riforma del sistema impositivo e sussidi alle truppe occupanti, riforma costituzionale (specialmente cap. quinto); e quant’altro. Tale mediazione ebbe maggiore efficacia dove meno diviso era il ceto politico (nel cantone di Bellinzona, Leventina esclusa). Con il regime della c.d. Mediazione, imposto da Bonaparte tra 1802 e 1803, si assiste a una stabilizzazione istituzionale della Confederazione (simile a quella avvenuta con la Repubblica Italiana sotto la presidenza del medesimo), grazie anche a un compromesso tra le posizioni centralistiche, predominanti almeno in seno al ceto dirigente elvetico, e le istanze federalistiche (cui non era insensibile lo stesso Napoleone), minoritarie ovunque tranne che nel Luganese ove le rappresentavano, tra gli altri, Quadri e Reali; e a una più evidente tutela del culto cattolico nel neonato cantone Ticino che, per la prima volta, assumeva la fisionomia di Stato «quasi sovrano» (p. 240) con Bellinzona unico capoluogo. Nel sistema napoleonico (capitoli sesto e settimo), in cui la Svizzera dei 19 cantoni è ridotta a Stato satellite della Francia, gli esponenti politici ai vertici dello Stato cantonale ticinese (come membri del piccolo e del gran consiglio) così come negli organi e negli uffici periferici e locali pure sperimentano una modernizzazione socio-istituzionale, sia pure nel senso moderato di un egualitarismo meramente giuridico, nel predominio di un notabilato borghese selezionato per censo, età, temperanza ideologica, tipico della stagione napoleonica. Ne discende la permanenza al potere di un ristretto gruppo di persone, resa possibile da un crescente radicamento di esse nel territorio complessivo del cantone, divenuto «spazio politico unitario e coeso» (p. 294). Dall’ottobre 1810 con l’occupazione delle truppe del Regno d’Italia, giustificata da Napoleone con la caccia ai disertori e con la lotta al contrabbando delle merci inglesi e coloniali proibite dal Blocco continentale, il regime della Mediazione va in crisi nel Ticino, fino a decadere nel dicembre 1813 in seguito ai rivolgimenti internazionali (capitoli ottavo e nono). Il personale politico preso in esame lotta allora per la propria sopravvivenza, rimanendo comunque in carica, «tra resistenze, complicità e conflitti intestini» (p. 412), a fronte delle velleità italiane di inglobare le terre ticinesi fino al Gottardo. Caduto il regime napoleonico, l’intero 1814 sta sotto l’incertezza, la conflittualità sociale, le sommosse (a Giubiasco la più grave). Un progetto di costituzione del 4 marzo, genuina e concorde espressione di un ceto politico ticinese che non intende rinunciare ai principi di rappresentatività e di legalità del modello napoleonico, viene bocciato dalle autorità internazionali e sostituito con una costituzione di impronta più in linea con i principi della Restaurazione (17 dicembre): il prezzo per salvare l’autonomia del cantone. Nel complesso, nondimeno, con la vistosa eccezione di Angelo Maria Stoppani che pagherà il suo dissenso con esilio e carcere, il ceto dirigente della Mediazione riesce a riciclarsi nel nuovo ordine e, coerentemente, a realizzare alcune rilevanti riforme impostate negli anni napoleonici, quali l’aumento del bilancio statale, il codice di procedura civile e penale (1816), lo sviluppo della rete stradale. Zitierweise: Pagano, Emanuele: Rezension zu: Pellegrini, Manolo: La nascita del cantone Ticino. Ceto dirigente e mutamento politico, prefazione di Marco Marcacci, Locarno 2019. Zuerst erschienen in: |http://www.archiviostoricoticinese.ch/|Archivio Storico Ticinese|, 2021, Vol. 169 pagine 155-157." 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Non convince poi la scelta di tralasciare alcune personalità, quali Carlo Sacchi e Giovanni Pietro Daberti, che «pur avendo avuto ruoli istituzionali di rilievo» sono state escluse «per la presenza nel campione di familiari più in vista» (p. 24), partendo dal presupposto, tutto da dimostrare, che si siano mossi sulla medesima lunghezza d’onda dei loro famigliari. Come ha dimostrato Giorgio Rumi nel suo studio sulla famiglia Litta Visconti Arese alle volte infatti addirittura i fratelli potevano schierarsi su fronti opposti. Al termine di questo vaglio l’autore ha quindi selezionato un campione di 18 individui da sottoporre ad indagine dettagliata, scandita da cinque periodi politico istituzionali: la caduta dell’antico regime; l’istituzione della Repubblica Elvetica (1798–1803); la Mediazione (1803–1810); l’occupazione italiana (1810–1813) e la Restaurazione. 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D’altra parte l’autore dimostra di muoversi con abilità nell’articolare ed analizzare contesti estremamente frammentati e diversificati, ad esempio quando scompone il quadro del mondo sudalpino in una miriade di piccoli mondi attraversati da profonde spaccature e gelosie, che giustificano il comportamento e il posizionamento dei membri delle élites e i loro mutamenti di campo, atteggiamenti che potrebbero apparire contraddittori ricorrendo alle sole categorie tradizionali di conservatori e rinnovatori. Le contraddizioni si manifestano in primis nel dualismo tra città e campagne, tra i sostenitori del collocamento del centro politico cantonale a Bellinzona e quanti prediligevano Lugano, con un continuo cambio di posizionamento politico dettato non tanto da un mutamento d’opinione, quanto piuttosto da un mutamento di contesto. 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Oltre che per la serrata e meticolosa analisi delle prese di posizione delle élites sudalpine, il libro si fa anche apprezzare per l’eleganza e la cura dell’edizione, corredata da ben 24 immagini tra stampe d’epoca e fotografie, 14 riproduzioni di documenti e 3 carte del territorio, utilissime al lettore non ticinese per riuscire ad orientarsi in un territorio frastagliato. Spiace invece l’assenza di un indice dei nomi che rende meno agevole la consultazione del volume, soprattutto in ragione dell’approccio prosopografico adottato. Un limite che è stato solo in parte ovviato dall’inserimento di diciotto sintetiche schede biografiche delle personalità poste sotto osservazione. Zitierweise: Levati, Stefano: Rezension zu: Pellegrini, Manolo: La nascita del Cantone Ticino. Ceto dirigente e mutamento politico, Locarno 2019. 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M. Pellegrini: La nascita del cantone Ticino

Cover
Titel
La nascita del Cantone Ticino. Ceto dirigente e mutamento politico


Autor(en)
Pellegrini, Manolo
Erschienen
Locarno 2019: Armando Dadò Editore
Anzahl Seiten
544 S.
von
Emanuele Pagano

In questa ponderosa monografia, frutto di un’ampia ricerca condotta per la tesi di dottorato (Università di Losanna), Manolo Pellegrini si propone di studiare il ceto dirigente della Svizzera “sudalpina” (termine espressamente prediletto dall’autore per la sua ‘neutralità’ ideologica) dalla caduta dell’Ancien Régime, nella primavera 1798, alla transizione fra Napoleone e la Restaurazione, con un approccio concettuale che rinvia al campo rinnovato della storia politica. Non è dubbio che – come ricorda Marco Marcacci nella prefazione – all’intervento francese le terre ticinesi debbano la loro emancipazione dalla sudditanza dei Cantoni sovrani e la nascita di uno Stato repubblicano autonomo nel 1803. Un’autonomia formale che, tuttavia, non poteva eludere i condizionamenti sostanziali di Parigi. Eppure, nel contesto ticinese come altrove, élites e comunità locali riuscirono a interagire con il nuovo dominus in maniera diversificata, non meramente passiva, denotando capacità di mediazione tra interessi diversi e, per quanto attiene al ceto dirigente sudalpino, abilità nel mantenersi al potere lungo l’intero periodo francese e oltre, fosse pure al prezzo di rimodulare via via il proprio orientamento politico. Attraverso uno scavo approfondito nella documentazione (rilevante quella inedita d’archivio), l’autore assume un osservatorio privilegiato delle vicende dell’epoca circoscrivendo un campione di venti personalità politiche, di primo e di secondo piano, sufficientemente rappresentative degli otto antichi baliaggi e dei diversi orientamenti emersi dal 1798 in avanti. L’intento, che in tal modo si realizza, è gettare nuova luce su un periodo che, data l’ingombrante (e forse un po’ deprimente) influen za della Francia sulle vicende elvetiche, «è stato piuttosto trascurato dalla storiografia» (p. 27), superando al contempo troppo rigide dicotomie storiografiche tra filoelvetici e filocisalpini, o fra (proto) liberali e moderati. Tra i personaggi di spicco campeggiano il colonnello Giuseppe Rusconi, l’abate Vincenzo Dalberti, gli avvocati Giuseppe Franzoni e Andrea Caglioni; e, per il Sottoceneri, Giovanni Battista Maggi e Giovanni Battista Quadri.

Il volume consta di un’introduzione, nove capitoli (non numerati), conclusioni, corposi allegati (carte storiche, biografie dei venti personaggi politici), 38 tavole fuori testo (paesaggi, ritratti, documenti manoscritti). Nel primo capitolo l’adesione degli esponenti politici suddetti al mutamento rivoluzionario – ora convinta e attiva, ora più cauta e attendista – si spiega in generale con il clima di asfittico conservatorismo del tardo Settecento svizzero, che precludeva al notabilato locale in questione la possibilità di assurgere a ruoli istituzionali di rilievo; ed anche con la distinta formazione ideologico culturale internazionale di molti protagonisti ticinesi del nuovo regime, maturata tra le città della Lombardia Austriaca (Milano, Como, Pavia), la Francia, l’Impero. Oltre all’elemento linguisticoculturale, un fattore generazionale e uno geo-economico pure emergono qua e là, specialmente nel definire meglio le minoritarie tendenze filocisalpine di un Quadri, di un Maggi, di Giovanni Reali o di Agostino Dazzoni, animatori del fallito assalto a Lugano (15 febbraio ’98). Ed è proprio questa corrente politica a pagare il tributo più alto nei tumultuosi anni che scandiscono l’Elvetica fino al 1803, inframmezzati dalla guerra della II coalizione e dalle occupazioni austro-russa e francese che afflissero anche i due nuovi cantoni di Bellinzona e di Lugano (vicende efficacemente ripercorse nei capitoli secondo, terzo, quarto). I filocisalpini sono esclusi dalla vita politica (è quasi un’eccezione Dazzoni, segretario del viceprefetto distrettuale di Leventina), costretti all’esilio in Italia anche a seguito dell’insorgenza controrivoluzionaria che a Lugano nell’aprile 1799 costa la vita ad alcuni esponenti di tale fazione “patriottica” (nessuno di spicco), incluso l’abate Vanelli, redattore della «Gazzetta di Lugano». Sono i moderati filoelvetici ad assumere cariche importanti sotto l’Elvetica, sia personalità provenienti dal vecchio regime (i prefetti Rusconi e Franzoni) sia nuove figure come Giacomo Buonvicini, Antonio Maria Luvini, Annibale Pellegrini, Vittore Ghiringhelli. Lo stesso Dalberti, il cui profilo di statista già s’intravede, pur essendo escluso come ecclesiastico dalle cariche pubbliche per disposto costituzionale, si mantiene fedele ai principi del repubblicanesimo alla francese e coopera in vario modo alla vita istituzionale in Val Blenio, partecipando poi (1801) alla dieta unificata dei notabili ticinesi in cui si discute per la prima volta il progetto di un unico cantone a sud delle Alpi, su im pulso del Primo Console. Certo, le urgenze del momento e l’applicazione delle politiche decise dal regime unitario e centralista dell’Elvetica creano fratture e richiedono un continuo esercizio di mediazione: abolizione di decime ecclesiastiche e residui feudali, soppressione degli ordini religiosi regolari e avocazione delle relative proprietà, esclusione del clero dalle cariche civili, forme di coscrizione militare obbligatoria, riforma del sistema impositivo e sussidi alle truppe occupanti, riforma costituzionale (specialmente cap. quinto); e quant’altro. Tale mediazione ebbe maggiore efficacia dove meno diviso era il ceto politico (nel cantone di Bellinzona, Leventina esclusa).

Con il regime della c.d. Mediazione, imposto da Bonaparte tra 1802 e 1803, si assiste a una stabilizzazione istituzionale della Confederazione (simile a quella avvenuta con la Repubblica Italiana sotto la presidenza del medesimo), grazie anche a un compromesso tra le posizioni centralistiche, predominanti almeno in seno al ceto dirigente elvetico, e le istanze federalistiche (cui non era insensibile lo stesso Napoleone), minoritarie ovunque tranne che nel Luganese ove le rappresentavano, tra gli altri, Quadri e Reali; e a una più evidente tutela del culto cattolico nel neonato cantone Ticino che, per la prima volta, assumeva la fisionomia di Stato «quasi sovrano» (p. 240) con Bellinzona unico capoluogo. Nel sistema napoleonico (capitoli sesto e settimo), in cui la Svizzera dei 19 cantoni è ridotta a Stato satellite della Francia, gli esponenti politici ai vertici dello Stato cantonale ticinese (come membri del piccolo e del gran consiglio) così come negli organi e negli uffici periferici e locali pure sperimentano una modernizzazione socio-istituzionale, sia pure nel senso moderato di un egualitarismo meramente giuridico, nel predominio di un notabilato borghese selezionato per censo, età, temperanza ideologica, tipico della stagione napoleonica. Ne discende la permanenza al potere di un ristretto gruppo di persone, resa possibile da un crescente radicamento di esse nel territorio complessivo del cantone, divenuto «spazio politico unitario e coeso» (p. 294). Dall’ottobre 1810 con l’occupazione delle truppe del Regno d’Italia, giustificata da Napoleone con la caccia ai disertori e con la lotta al contrabbando delle merci inglesi e coloniali proibite dal Blocco continentale, il regime della Mediazione va in crisi nel Ticino, fino a decadere nel dicembre 1813 in seguito ai rivolgimenti internazionali (capitoli ottavo e nono). Il personale politico preso in esame lotta allora per la propria sopravvivenza, rimanendo comunque in carica, «tra resistenze, complicità e conflitti intestini» (p. 412), a fronte delle velleità italiane di inglobare le terre ticinesi fino al Gottardo.

Caduto il regime napoleonico, l’intero 1814 sta sotto l’incertezza, la conflittualità sociale, le sommosse (a Giubiasco la più grave). Un progetto di costituzione del 4 marzo, genuina e concorde espressione di un ceto politico ticinese che non intende rinunciare ai principi di rappresentatività e di legalità del modello napoleonico, viene bocciato dalle autorità internazionali e sostituito con una costituzione di impronta più in linea con i principi della Restaurazione (17 dicembre): il prezzo per salvare l’autonomia del cantone. Nel complesso, nondimeno, con la vistosa eccezione di Angelo Maria Stoppani che pagherà il suo dissenso con esilio e carcere, il ceto dirigente della Mediazione riesce a riciclarsi nel nuovo ordine e, coerentemente, a realizzare alcune rilevanti riforme impostate negli anni napoleonici, quali l’aumento del bilancio statale, il codice di procedura civile e penale (1816), lo sviluppo della rete stradale.

Zitierweise:
Pagano, Emanuele: Rezension zu: Pellegrini, Manolo: La nascita del cantone Ticino. Ceto dirigente e mutamento politico, prefazione di Marco Marcacci, Locarno 2019. Zuerst erschienen in: Archivio Storico Ticinese, 2021, Vol. 169 pagine 155-157.

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Archivio Storico Ticinese, 2021, Vol. 169 pagine 155-157.

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